Dopo il TC sentivo la mancanza di un’esperienza, di un pezzo di vita, come se la mia competenza di donna si fosse fermata ma la vita fosse andata avanti, mi trovavo madre e con una figlia, senza averla partorita. Tante di voi conoscono per esperienza questa sensazione, tante altre la conoscono tramite i racconti di chi l’ha vissuta. Pensavo ad un VBAC come ad un riscatto, un cerotto da applicare sulla ferita che avevo per farla sparire.
Poi è arrivato il VBAC che, mi sono resa conto solo dopo diverso tempo, non è stato quel cerotto miracoloso capace di eliminare la mia ferita, l’ha fatta smettere di sanguinare, questo è certo, ma la cicatrice è rimasta, chiara e viva, e oggi so che così resterà per sempre. Ma è giusto che sia così, quella esperienza è parte di me, e anche se ancora la rifiuto ed è dura ammetterlo, è stata la molla che mi ha portato ad essere ciò che sono oggi.
Poi è arrivata una nuova gravidanza ed io, che credevo di aver raggiunto il mio obiettivo con il VBAC, mi sono resa conto di avere ancora un pentolone ribollente da scoperchiare. Questo passo è stato il più difficile, più difficile del VBAC stesso, perché è più facile affrontare gli altri che affrontare sé stessi. E qui mi sono resa conto che il VBAC non era stato il mio punto d’arrivo, ma solo una tappa, un passaggio della mia vita e del mio essere donna, che era servito solo a rimettermi in pari con quel TC che mi aveva portata lontana dal mio percorso di donna e di madre: avevo solo ritrovato la mia strada, ora era necessario riprendere a percorrerla.
Sentivo di essere pronta a cercare un altro figlio, ma sapevo che non era il momento giusto: molto più saggio aspettare la fine dell’anno e dei miei impegni presi e poi pensare ad una nuova vita da amare. Ma quando la natura chiama non sempre la ragione riesce ad imporsi, e così a giugno il giorno del mio compleanno, annunciammo al resto della famiglia che un’altra creatura era in viaggio. E’ stata una gravidanza vissuta intimamente, quasi nascosta agli altri come se il condividere avesse potuto inquinare la purezza della simbiosi con quella creatura che cresceva dentro di me. Dicembre è stato un mese difficile, fisicamente soffrivo tanto sia perché ero ormai al 7° mese sia perché lo stress mi distruggeva. Sotto feste di Natale, invece di prendere peso (come sempre, anche al di fuori della gravidanza) ho perso un kg, mangiavo poco e quello che mangiavo vomitavo. Anche la mente era completamente assorbita, tanto che, una volta liberatami dai pensieri dei miei impegni, mi sono accorta di essermi, per un intero mese, dimenticata della mia creatura. Le settimane successive le ho passate a letto e a riposo, la ripresa è stata lenta, anzi credevo che non mi sarei più ripresa fisicamente. Avere di nuovo la testa libera di pensare mi ha fatto rendere conto che avevo perso contatto con me stessa e con la mia creatura, che non avevo vissuto un pezzo della mia gravidanza, che ero rimasta indietro. Ed è stato panico, tutte le paure fisiologiche in gravidanza che non avevo affrontato una alla volta a tempo debito mi sono crollate addosso insieme, ho dovuto affrontarle tutte in una volta, temendo di non avere abbastanza forze per farlo. Avrei voluto partorire a casa, mettermi alla ricerca di un’ostetrica che mi assistesse, ma ora dovevo affrontare qualcosa di non previsto, e l’incertezza di non sapere dove pensare il mio parto, e con chi, mi destabilizzava ancora di più. Alla fine, pur con grande rammarico, decisi che la cosa migliore era darmi almeno una certezza, perché avevo bisogno più di questa che delle condizioni di parto che sognavo, per cui telefonai all’ostetrica dell’ospedale e presi appuntamento con lei per fare una chiacchierata. Questo inverno il tempo non è stato clemente e tra i vari danni che ha causato ci sono state alcune frane che hanno richiesto la chiusura dell’autostrada e della sottostante statale, per cui raggiungere l’ospedale era diventato praticamente impossibile (salvo prendere tutt’altra strada e sorbirsi circa 3 ore di macchina per percorrere 60 km in linea d’area), quindi l’incontro è stato posticipato, così come l’ultimo controllo di fine gravidanza (che poi non ho mai fatto). In realtà l’incontro con l’ostetrica non lo sentivo tanto necessario per capire come la pensasse lei, quanto per farle capire come la pensavo io. Tutto sommato, anche se compressa in una mentalità ospedaliera, si è mostrata disponibile, ma più che altro ho avuto l’impressione che fosse estremamente divertita da questa pazzoide che chiedeva assistenza per un parto naturale, senza interferenze.
Lunedì 16 febbraio
Durante la notte, intorno alle 2 avverto dei dolori che mi disturbano il sonno, non sono chiarissimi e mi viene il dubbio che sia influenza intestinale perché le bimbe da qualche giorno non stanno bene. Ma poi tornano ritmicamente ogni mezz’ora, per 2 o 3 ore, poi niente più.
La mattina ho appuntamento col primario, nonché mio ginecologo di fiducia, per altre questioni personali. Durante il viaggio una macchina ci taglia la strada e in quel momento mi parte una contrazione, e per tutto il viaggio continuo ad avere piccole contrazioni non dolorose. Dopo un’ora di incontro col dottore, quando ci alziamo per andare via, indicandogli la pancia gli dico: ‘che facciamo con questa?’. L’ultimo controllo risale alla 32° settimana, e ora sono a 40+2. Lui mi dice ‘mah, diamo un’occhiata’ mi fa la prima ed unica visita di tutta la gravidanza, sono appena pervia al dito e tutto è fermo. La visita mi fa intensificare le contrazioni che diventano leggermente dolorose, ma tutto è ancora molto soft, mi chiede se preferisco tornare il giorno dopo per un monitoraggio, ma visto che sono già lì e che mi ci vuole un’ora di macchina gli dico che eviterei di tornare, così mi fa fare questo monitoraggio e poi mi dice di farmi vedere verso mercoledì o giovedì (sempre aggiungendo ‘se non succede niente prima’). Torno a casa e queste contrazioni continuano ad andare e venire ogni mezz’ora, non sono forti ma mi accorgo che si vanno intensificando man mano che passa il tempo. Nel tardo pomeriggio scompaiono, io sistemo le bimbe per la notte e lascio la cena pronta per Renato che rientra tardi, poi vado a letto. Dopo qualche ora le contrazioni riprendono e iniziano ad essere dolorose. Durante la notte tra una contrazione e l’altra dormo, ancora sono distanziate di circa 30 minuti, quindi riesco anche a riposare. Quando vado in bagno, verso le 3.00, trovo un bel pezzo di tappo mucoso.
Martedì 17 febbraio
Fa giorno e le contrazioni ci sono ancora, dolorosette ma non frequenti. Mi alzo e preparo le bimbe per l’asilo. Probabilmente questo mi distrae e mi agita (non è un’impresa facile ) tanto che le contrazioni diminuiscono di frequenza e intensità. Le bimbe escono e dopo un po’ le contrazioni riprendono e si ravvicinano, mentre io continuo tranquillamente a darmi da fare in casa, pulisco la cucina, metto in ordine il soggiorno, spazzo i pavimenti, stendo una lavatrice di panni puliti. Verso le 11.00 mi arrivano due telefonate una dietro l’altra, la seconda delle quali mi agita un poco e mi innervosisce: vorrei chiudere ma la persona che ha chiamato mi trattiene al telefono, intanto ho difficoltà a gestire le contrazioni ed a parlare. Sarà stato per questo, ma quando, dopo una buona mezz’ora chiudo la chiamata le contrazioni sono quasi sparite. Dopo un paio d’ore ripartono e sono sempre più intense. Renato è preoccupato perché il tempo è brutto e c’è il rischio che l’autostrada torni inagibile, allora decidiamo di andare in ospedale per vedere come vanno le cose. Trovo di turno la ‘mia’ ostetrica che mi visita e mi dice che sono in pretravaglio, sempre pervia al dito, e che per quanto vede potrei partorire entro la sera come anche tra due giorni. Renato, sempre preoccupato per la strada, le chiede se è il caso che mi fermi e lei risponde che la cosa migliore è che sia io a decidere. Io sono titubante, le preoccupazioni di Renato riguardo il tempo e le condizioni della strada sono più che fondate, in più mi dispiace farlo andare avanti e indietro. Però, in realtà, il mio desiderio è quello di tornare a casa mia e alla fine decido di andare. Arrivati a metà strada l’autostrada è bloccata ma ce ne accorgiamo per tempo e riusciamo ad uscire e prendere la statale, solo che impieghiamo oltre un’ora in più per arrivare a casa. A casa le contrazioni continuano ogni 10-15 minuti, sono dolorose ma le gestisco. Poi si diradano un po’ verso l’ora di cena (magari in questo c’entra mia suocera, che era venuta a dormire lì per restare con le bambine in caso di necessità, che continua a starmi addosso e a predicare di andare in ospedale). Vado a letto e verso le 22.30 le contrazioni tornano dolorose e regolari, ogni 10-15 minuti. Nell’intervallo mi appisolo, quando sento arrivare la contrazione mi alzo perché in piedi affronto meglio il dolore, passeggio, mi appoggio al divano oppure ad un mobile, esco dalla stanza da letto per evitare di fare rumore, poi torno a letto e mi riassopisco. Passano le ore, ogni tanto vado in bagno e trovo sempre discrete quantità di tappo. Sono immersa nella notte, mi sento protetta dal buio e dalla mia casa, confortata dalle mie cose e dall’ambiente che mi è familiare, penso a quanto ho fatto bene a non restare in ospedale, a quanto mi sento bene ad affrontare questa notte a casa mia, a quanto anche il dolore sembri piacevole. Ripenso a quelle due notti in ospedale, quelle due notti di solitudine e sconforto prima di diventare madre, e mi sento felice di essere qua.
Passano ancora le ore e continuo ad attraversare questa notte di impegno del mio corpo, sono in sintonia con l’atmosfera che ho intorno, con la notte, il dolore arriva e passa, e io sto bene con me stessa e con il mondo, ogni cosa è al posto giusto: le bimbe sono con me, ma dormono tranquille, Renato idem, ho la mia famiglia vicino ma sono sola, posso pensare solo a me, nessuno mi parla, nessuno mi guarda. Ogni tanto sbircio fuori dalla finestra, mi è sempre piaciuta la notte.
Mercoledì 18 febbraio
Sono le 3.00. Le contrazioni all’improvviso diventano più forti, non ho il tempo di accorgermene e fatico a gestirle, il dolore ora è decisamente forte, e va ad aumentare, non riesco più ad alzarmi per affrontarle in piedi, e comunque non è che riesca a gestirle meglio. Ogni tanto mi scappa un lamento. Sono le circa le 4.00 quando Renato si sveglia sentendomi lamentare, mi chiede come va, poi, dopo qualche contrazione mi dice che forse è il caso di andare in ospedale. Io aspetterei ancora un po’, vorrei aspettare il giorno, ma tra alzarci e prepararci si fanno le 5.00 e ci aspetta un’ora di strada da fare, meglio muoversi. Mi porto dietro un plaid e un cuscino, le contrazioni mi sconquassano e muoio dal freddo. Mi sistemo in macchina ben coperta e trovo una posizione comoda, in fondo è anche piacevole chiacchierare con Renato e appisolarmi tra una contrazione e l’altra. Intanto il dolore aumenta e Renato, solerte, tiene conto del tempo che passa tra una contrazione e l’altra, ormai ne arriva una ogni 7 minuti e sono decisamente forti. Siamo a pochi km dall’ospedale e mi comunica che ora le contrazioni arrivano ogni 5 minuti netti. Sono le 6.00 quando arriviamo in ospedale, Renato mi fa scendere davanti al pronto soccorso e lui va a parcheggiare. Io ho appena avuto una contrazione in macchina e penso che in 5 minuti ho il tempo di entrare in ospedale, prima che arrivi l’altra, scendo avvolta nel mio plaid ma, forse per colpa del freddo, forse per il movimento, arriva una contrazione improvvisa ed estemporanea che mi blocca sul ciglio della strada, mi appoggio al muretto e aspetto che passi, mentre un uomo mi passa davanti e mi frega il turno al pronto soccorso. Entro, piegata in due e sempre avvolta nel mio plaid, e mi appoggio ad una scrivania mentre arriva l’ennesima contrazione. L’infermiera che è occupata con un bambino in preda ad un’influenza intestinale mi guarda con aria interrogativa e mi chiede cos’ho. Quando rispondo ‘gravidanza a termine….’ le si rizzano i capelli in testa, mi fa accomodare su una sedia a rotelle e chiama una portantina per accompagnarmi in reparto: infagottata e piegata com’ero non si era accorta del pancione. Intanto è arrivato Renato e dentro l’aria è calda, mi sento di nuovo bene. L’ostetrica di turno mi visita e compila il ricovero, mi annuncia che sono in travaglio ed ho 2 cm di dilatazione. Poi mi accompagna in sala travaglio, la stessa dove ho travagliato per Silvia, e mi attacca il monitoraggio. Sono stanca ma mi sento bene, il letto è comodo e mi fa piacere stare un po’ sdraiata, l’ostetrica mi dice che se nasce oggi farà il compleanno lo stesso giorno di suo marito. Poi aggiunge che secondo lei nascerà entro la mattinata. Le dico che Pina (la ‘mia’ostetrica) mi aveva detto di chiamarla a qualsiasi ora, lei mi informa che sta per montare in servizio, che è di turno di mattina. Allora decido che non vale la pena telefonare, tanto tra meno di un’ora sarà qui comunque. Il tempo passa, ma io me ne accorgo solo quando vedo spuntare Pina, l’ostetrica, in camice bianco che mi saluta con la solita flemma. Mi dice di andare a fare pipì e poi di andare da lei a farmi visitare. Vado in bagno e provo a fare pipì, ma la mia vescica non ha nessuna intenzione di collaborare, cerco di sforzarmi un po’ ma ottengo solo delle contrazioni. Penso alla fortuna che ho di trovarmi in un bagno pulito e spazioso e ringrazio chi ha avuto la bella pensata di dotarlo di un armadietto basso a cui posso agevolmente appoggiarmi sotto contrazione e contemporaneamente massaggiarmi la schiena. Dopo qualche tentativo senza risultati mi decido: OK, niente pipì. Vado nella saletta visite dove Pina mi aspetta. Mi visita e dice che sono a 2 cm abbondanti, quasi 3. Intanto io continuo a perdere pezzi di tappo mucoso. Lei prende il telefono e chiama la ginecologa addetta al parto in acqua la quale, mi sembra di capire, non può venire subito. Pina le dice di fare più presto possibile perché ‘sta andando veloce’, che lei intanto inizia a riempire la vasca. Poi mi dice di cambiarmi e di raggiungerla in sala parto. Esco dalla saletta visite e trovo Renato che era andato in macchina a prendere la valigia: che bello rivederlo! Torno in sala travaglio appoggiandomi a lui, prendo una camicia da notte dalla valigia e arriva una contrazione, mi appoggio ai piedi del letto, ma non è una contrazione come le altre, sento le spinte!!! Penso che no, non può essere, poco fa ero a 2 cm, non posso avere già le spinte, non devo spingere, magari combino un guaio. Cerco di trattenere le spinte e inizio a tremare tutta, tra una contrazione e l’altra il dolore diventa continuo, non resisto più. Mi viene in mente il racconto del VBAC di un’amica, che sentiva le spinte da subito e che si dilatava spingendo. Mi dico che se il mio corpo mi chiede di spingere avrà i suoi buoni motivi e decido che lui sa e che si fa come dice lui. Mi avvio verso la sala parto con la vasca appoggiandomi a Renato. Intanto, però ormai sono molto contratta, ho tutti i muscoli in tensione, cerco di assecondare la spinta ma mi riesce difficile perché ora sono tutta un dolore, mi fermo sulla porta dell’atrio e non riesco più a muovermi, resto bloccata dal dolore, vorrei solo volare in acqua ma non posso muovere neanche un passo. Mi prendo il tempo che mi serve, cerco di sciogliere i muscoli, un passo alla volta arrivo alla vasca, mi spoglio, controllo la temperatura dall’acqua, poi metto un piede, l’altro, mi accovaccio mentre ancora l’acqua mi arriva appena ai polpacci, e come l’acqua mi tocca ogni muscolo si scioglie, scompare ogni dolore e contrattura, mi rilasso. Siccome l’acqua è ancora bassa, Pina mi passa il getto caldo sulla pancia, io mi sento una favola, chiudo gli occhi e mi isolo in quel paradiso tiepido. Le contrazioni continuano ad arrivare ma quando passano mi rilasso e mi sento davvero bene. C’è la musica che mi concilia l’alienazione da tutto quello che ho intorno, sono completamente concentrata sul mio corpo ed allo stesso tempo perfettamente lucida e presente. Pina e la ginecologa (che nel frattempo è arrivata) mi dicono di spingere, io ho i premiti, ma solo dopo mi sono resa conto che non erano ancora quelli giusti, e spingo ma non sento la bimba avanzare. Pina mi dice che ormai manca poco, che sotto la spinta si vede la testa. Io, dopo qualche spinta le chiedo ‘ma siamo sicuri che ci passa?’ lei fa una risatina e mi risponde che ci passa. Intanto mi accorgo che qualcuno ha cambiato la colonna sonora: ‘ma mi avete messo la musica di Superman??’ e mi viene da ridere. Intanto ad ogni contrazione spingo, ma sento un po’ di bruciore e quindi non insisto. Pina e la ginecologa continuano ad incitarmi a spingere, io assecondo il premito, ma quando sento il bruciore penso ‘col cavolo che spingo…’. Poi mi decido inizio a spingere forte, sento che la testa si fa strada, è quasi fuori, un’altra contrazione e la testa esce. Vedo questa testina minuscola che fluttua tra le mie gambe e mi sembra così piccola, aspetto la contrazione ma sembra che non arrivi mai, e intanto guardo l’unica parte visibile di quella nuova creatura e inizio a riconoscerla come mia, in quel momento di passaggio, in quell’attimo di limbo tra l’essere nato ed il non esserlo ancora, tra l’essere parte del mio corpo e l’avere vita propria, tra l’essere una sola persona ed esserne due. Quando arriva la contrazione già riconosco quella testolina come mia figlia, la spingo fuori e la vedo andare alla deriva nell’acqua. L’ostetrica la prende e me l’appoggia sul petto, poi con un telo verde le coprono le spalle che sono fuori dall’acqua. La neonatologa chiede come si chiama e io ne approfitto per metterlo ai voti: siamo indecisi tra Sara e Anita. Vince Anita.
Restiamo così per un po’ poi Pina mi chiede se possiamo tagliare il cordone, io chiedo se ha smesso di pulsare, lei mi risponde di si, me lo mostra e me lo mette in mano, dico che va bene, lei clampa e Renato taglia. La neonatologa prende in consegna Anita e Renato la segue. Io resto nella vasca, Pina e la ginecologa sembrano un pochino preoccupate perché l’utero non si contrae, me lo massaggiano per un po’, poi esce la placenta. Mi aiutano ad alzarmi lentamente, mi fanno la doccia, poi mi danno una mano ad uscire dalla vasca e a salire sul lettino. Perdo sangue e Pina non capisce da dove, si sono formati dei coaguli, toglie i più grossi (e mi fa un male boia), poi arriva la ginecologa e chiede se mi sono lacerata. La lacerazione è di II grado, è il caso di dare qualche punto, chiedo l’anestesia e me la fa. Intanto un’infermiera mi asciuga i capelli. Mi mettono il braccialetto e scopro che Anita è nata alle 9.03, appena 3 ore dopo l’arrivo in ospedale: e io che credevo che fosse almeno mezzogiorno!!! Renato torna con Anita nella culletta, avvolta nella copertina che ho fatto per lei durante le mie notti insonni. Inutile dire che già sono innamorata persa
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